venerdì 8 dicembre 2017

Di Marilyn Manson e anni che passano


Ho visto, con curiosità, l’intervento di Marilyn Manson alla prima puntata del programma “Music” di Paolo Bonolis. Il cantante “satanico” è uno dei primi che mi è piaciuto, tra quelli che seguo ancora adesso (eliminando, quindi, alcuni “amori giovanili” come i Green Day), e già 16 anni fa, nel 2001, dovevo andare a un suo concerto, quello di Marino, nei pressi di Roma.
Al tempo uscivo spesso con alcuni amici e facevo l’alba a Napoli (ne ho parlato ad esempio qui). Uno di questi, batterista di un gruppo punk che seguivo, si era procurato i biglietti per il concerto romano di Marilyn Manson e avrei potuto procurarmene uno anche io. Non ci riuscii, con sommo dispiacere, ma come venni a sapere il giorno successivo il concerto non era andato bene. Problemi di strumentazione, a quanto pare, e Manson col suo gruppo chiuse in fretta la data con un “The Beautiful People” che sapeva tanto di playback, per i problemi sopra citati.
Nel giugno del 2005, riuscii finalmente a coronare questo sogno, con un concerto milanese, al Filaforum di Assago. Ho trovato la serata integrale su Youtube (postata in due parti), se vi interessa. Questa volta, non c’erano altri con cui andare, ma non mi persi d’animo e mi misi da solo in treno la mattina del concerto. Fu un bel pomeriggio, conobbi alcuni ragazzi e, spostandoci verso il palazzetto, si unirono a noi alcune ragazze “eccitate” dall’imminente serata. Passammo qualche rilassante e piacevole ora nei pressi del palazzetto, in attesa che si aprissero i cancelli. Alla fine, il mio gruppo improvvisato attese troppo per andare in stazione, non trovammo treni e passammo parte della notte in giro per Milano, tra le bestemmie di un pub nel quale entrammo quasi alle due di notte pretendendo di mangiare. Dimenticavo: tranne me, sia i ragazzi che le ragazze erano truccati alla Manson, quindi il bel gruppo era anche parecchio inquietante. Io avevo “solo” la maglietta d’ordinanza col suo faccione cadaverico e qualche bracciale e anello sparso.
Quando fu chiaro che avremmo trovato tutto chiuso, andammo a dormire in stazione e attendemmo l’alba per prendere i rispettivi treni. Con uno dei ragazzi sono rimasto in contatto per diversi anni, andando anche a trovarlo a casa sua per qualche giorno tranquillo e qualche notte all’insegna delle feste folli.
Facciamo un salto di 12 anni: una mia amica, più giovane, mi ha detto che attende la nuova data italiana del Reverendo per andare a vederlo dal vivo. All’inizio ho pensato che avrebbe visto un Marilyn Manson irrobustito e invecchiato, ma poi ci ho pensato su: quando andai al concerto del 2005, pensai che avevo perso troppo tempo e non era più il Marilyn Manson di una volta, quello di “Antichrist Superstar”, ma il concerto, vissuto rigorosamente in seconda-terza fila (la prima era inarrivabile, ma il pogo selvaggio era migliore subito dopo la prima fila avvinghiata alle transenne), fu comunque magico. Quindi, sì, Manson è invecchiato, tutti invecchiamo, ma vederlo con Bonolis è stato piacevole, e penso che per questa mia amica sarà un momento magico comunque, anche vedere in concerto un cantante quasi cinquantenne, ancora tra le icone del rock satanico, perché al centro di tutto ci sarà la sua musica. E poi, diciamocelo, richiama le stesse critiche di allora semplicemente perché Gianni Morandi decide di farsi un selfie assieme al “seguace di Satana”, quindi è ancora più che in forma.

lunedì 27 novembre 2017

Black Friday, buona musica in offerta


Nei giorni scorsi, a ridosso del Black Friday, ho avuto modo di “scoprire” questa canzone del 2011 di Rebecca Black, “Friday”. Scevro dai giudizi di ciò che ho letto successivamente e che in parte riporterò, man mano che il video di Youtube procedeva la mia impressione è stata di trovarmi davanti una delle canzoni più brutte della storia, per nulla aiutata da un video orrendo anch’esso. Mi sbagliavo: è proprio la combo più brutta, certificata da numerosi premi, classifiche di periodici musicali e così via. E se le classifiche non danno numeri certi da esaminare, ha il maggior numero di pollici giù della storia di Youtube, 2 milioni e oltre solo nel nuovo canale.
Ma andiamo con ordine: una compagna di classe di Rebecca Black, nel 2011, trovò questa misconosciuta casa discografica, la Ark Music Factory. La ragazza, già desiderosa di sfondare nel mondo della musica, ne parlò alla madre, che pagò 4000 dollari per farle incidere una canzone con relativo video. Si decise di campionare la voce, acerba e a tratti stonata, di Rebecca Black, con il programma Auto-Tune, ma nulla si poté fare sul testo, di cui riporto uno stralcio: “Ieri era giovedì, oggi è venerdì [...] domani è sabato e domenica verrà dopo ancora”. Risultato, un video definito “terribilmente esilarante”, la voce “un inferno” e la parte rap del testo “raccapricciante” da eminenti esperti musicali.
Non fu un caso fin da subito, a dire il vero: all’inizio collezionò poche centinaia di visualizzazioni su Youtube (un video sul mio canale ne ha 71.000 circa, per fare un piccolo termine di paragone). Poi, però, grazie alla bruttezza unica, divenne trend topic su Twitter, e in pochi mesi raggiunse 167 milioni di visualizzazioni, ma anche più di un milione di voti negativi e l’interesse, con stroncature nette e letteralmente senza precedenti, di periodici che si occupano di musica. La Ark Music voleva a un certo punto cancellarlo dal suo canale, perché paradossalmente stava crescendo come marchio dopo questa cassa di risonanza involontaria e voleva “ripulirsi”. Al rifiuto di Rebecca Black, decise di produrre “Saturday”, il seguito di “Friday”, ma il progetto non vide la luce.
Poco dopo, Rebecca Black fece cancellare il video dal canale della Ark Music per postarlo sul suo. Da allora, 115 milioni di visualizzazioni, commenti esilaranti e due milioni di pollici giù, che sono valsi il titolo di video più disprezzato di Youtube. Nel suo stesso anno d’oro, il 2011, Black fondò la sua casa discografica, la RB Records, con la quale, tra le altre, riprese l’idea di “Saturday”, lanciando anche altri singoli.
Nel suo curriculum figura anche “attrice”, perché più tardi collabora con Katy Perry al suo film-documentario. Katy Perry e Justin Bieber la prendono sotto la loro ala protettrice non per la bravura (inesistente), ma perché con l’andare del tempo è diventata un simbolo della lotta al bullismo: non ha avuto solo commenti divertenti, per quanto negativi, ma anche offese e minacce di morte perfino al suo numero di casa, con la polizia che ha dovuto indagare.
Peccato davvero, perché lo sfottò può starci se il prodotto lo richiama per scarsa qualità, ma offese e minacce non sono mai giustificabili. Ed è il motivo ultimo per cui ho scritto questo post: per quanto scarsa in modo aberrante, mi sta simpatica per come è uscita da quell’obbrobrio e si è creata la carriera che aveva sempre desiderato.


lunedì 30 ottobre 2017

It comes back... Again


Nel 1990, come molti della mia generazione, vidi e rimasi affascinato dalla miniserie televisiva It, tratta dal romanzo forse di maggior successo di Stephen King. Tim Curry, già iconico protagonista di “The Rocky Horror Picture Show” (ma allora non lo sapevo, ero troppo piccolo: per me l’unico Rocky era Balboa), diede un volto al Pennywise del libro.
Io vidi prima la pellicola in TV e poi lessi il libro, così che il volto che diedi nella mia giovane fantasia al clown malefico era quello di Tim Curry. Ovviamente, come molti della mia generazione (di nuovo), non potevo esimermi dall’andare al cinema per il remake, giunto 27 anni dopo esatti, come il tempo di letargo del mutaforma rappresentato da Pennywise. Ecco, ora che li ho visti entrambi direi che il clown del romanzo potrebbe essere rappresentato con i vestiti del primo e la faccia del secondo, ovvero Bill Skarsgård. È un clown, deve avere un vestito adatto, ma è anche un demone. Oddio, se tengono fede alla storia originale riguardo la natura di It, “demone” è fuorviante, ma non voglio inserire spoiler di nessun tipo, quindi vada per “natura demoniaca”.
La versione 2017 l’ho trovata godibile, anche se potevano essere scelti meglio gli attori bambini: Mike e Beverly sembrano quasi maggiorenni, mentre invece dovrebbero avere 11 anni. Beverly, a sua volta, nel libro è una perdente a tutti gli effetti, e non una cazzuta ragazzina che ha sempre l’asso nella manica.
Bene alcune scelte di avvicinare il nuovo film alla storia scritta da Stephen King, invece, come Henry Bowers che ferisce sul serio Ben, invece di minacciare di farlo e poi venire interrotto. La cicatrice lasciata dall’episodio torna in Ben adulto e serve all’economia delle vicende, quindi eliminarla nella versione 1990 ha dato vita a un piccolo buco narrativo. Di contro, nuovamente nel 2017 Patrick Hockstetter è un punto, seppur maggiore rispetto al 1990, mentre invece nel romanzo il suo personaggio viene approfondito parecchio in quanto forse l’unico veramente pericoloso della banda di Henry, perché psicopatico e autore nel passato di un omicidio.
Ci sono molti altri particolari che ho apprezzato e altri meno, ma non voglio fare un lungo e personale elenco. Chiudo con un grosso plauso alla versione nuova: dividere, nel due film, bambini e adulti, con il casting ancora da fare. Nel 1990, con la regia di Tommy Lee Wallace, adulti e bambini erano “mescolati” come nel libro, ma nel film di Andrés Muschietti i bambini sono stati messi tutti ora, lasciando agli adulti la seconda parte, annunciata per il 2019. In questo modo i ragazzini che hanno visto “It” per curiosità torneranno al cinema, più maturi, pronti per la seconda parte tra due anni, mentre gli adulti attuali si scateneranno su Internet per fare i nomi dei papabili Bill, Eddie e Richie quarantenni tra gli attori più in voga del momento. A mio modo di vedere, mossa più che vincente.

sabato 30 settembre 2017

Il Karma esiste?


Oggi vi voglio parlare di un match molto controverso, accaduto a Tokio il 22 febbraio 2015. La campionessa, Yoshiko, nel Korakuen Hall, struttura che spesso ospita grossi eventi di wrestling, doveva lottare contro Act Yasukawa. In palio, il World of Stardom Championship.
D’improvviso, dopo i primi minuti abbastanza tranquilli, Yoshiko ha cominciato a colpire la sfidante con colpi stiff, per capirci l’ha pestata sul serio, con l’arbitro che ha atteso colpevolmente troppo prima di fermare l'incontro. Data la differenza di stazza, le cose si sono messe molto male per Yasukawa, e l’episodio è diventato famoso come “Seisan Matchi” o “Stardom Incident”. Il referto medico per lei parlava di fratture agli zigomi, al setto nasale e alle ossa orbitali, rischiando di fatto di perdere gli occhi e la vista. Se avete lo stomaco forte cercate l’incontro su Youtube, ma vi consiglierei comunque di desistere.
Il mio titolo sul Karma si riconduce a questo episodio, perché ho fatto ricerche sul presente delle due.
Act Yasukawa, all’epoca 29enne, che sarebbe dovuta tornare a fine settembre, ha annunciato invece il ritiro dal wrestling lottato l’1 dicembre 2015, per le conseguenze del pestaggio e i conseguenti problemi alla vista. Il 23 dicembre match di ritiro e, da allora, è rimasta nella federazione del “fattaccio”, la Stardom, facendo la manager di una stable, un gruppo di lottatori, ma senza più lottare.
Yoshiko, all’epoca 22enne, campionessa ai tempi del tentato omicidio (di quello si è trattato), è stata privata della cintura il 25 febbraio, ha chiesto scusa in lacrime durante una conferenza stampa ed è stata sospesa a tempo indeterminato. A fine maggio 2015 ha annunciato il ritiro dal wrestling. E, fermandomi qui, il Karma avrebbe anche portato alla cosa giusta. Ma non è finita qui. Nel gennaio 2016 Yoshiko è tornata alla lotta in un’altra federazione, la neonata Seadlinnng, della wrestler giapponese Nanae Takahashi. Nel suo primo match, datato marzo, ha addirittura battuto la Takahashi, segno di una profonda fiducia nelle doti dell’atleta da parte della proprietaria. Ad agosto è anche tornata a vincere tornei importanti, nella fattispecie il loro Ultra U-7 Tournament. Bene, fermiamoci qui. Anzi no: nel gennaio 2017 è passata a lottare nelle MMA, nella federazione Road Fighting Championship, operante in Corea del Sud. Da allora due incontri, due vittorie contro la stessa avversaria, usando il soprannome da combattimento “face-crusher”, colei che spacca le facce (direi che il video Youtube meglio di no, ma forse per capire il soprannome potete cercare immagini per “yoshiko yasukawa” su Google).
Quindi ripropongo la domanda iniziale. Il Karma esiste?

lunedì 28 agosto 2017

Floyd Mayweather vs. Conor McGregor, the biggest fight in combat sports history


Il match di pugilato tenutosi a Las Vegas, definito appunto “La più grande battaglia nella storia degli sport da combattimento”, lascia molto dietro di sé, e una domanda su tutte: è stato un incontro di boxe?
Innanzitutto, qualche parola sui due carismatici rivali: da una parte il vincitore Floyd Mayweather, 40 anni, che si è ritirato subito dopo e che resta imbattuto in carriera, 50 vittorie su altrettanti incontri, superando il record di Rocky Marciano di 49 vittorie. Record raggiunto con una certa furbizia, e dopo essersi ritirato nel 2007, esser tornato nel 2009 ed essersi ritirato nuovamente nel 2015, quand’era a quota 49 vittorie, dopo quella particolarmente sofferta contro Manny Pacquiao, la 48, tanto da negare la rivincita a Pacquiao. In carriera, comunque, parliamo di un atleta che dal 1998 al 2015 ha spesso tenuto un titolo mondiale alla vita, in differenti categorie di peso, e che 50 vittorie, furbizia o meno, le ha ottenute.
Dall’altra Conor McGregor, 29enne irlandese in forza alla UFC, dove detiene il titolo dei pesi leggeri da novembre dell’anno scorso, un personaggio che ha avuto il coraggio di mettersi in gioco nel pugilato dopo che nelle MMA, esclusa una sconfitta con Nate Diaz datata marzo 2016 (vendicata con una vittoria ad agosto dello stesso anno), non perde dal 2010. Su lui aleggiano però le accuse dei colleghi in UFC: dopo aver vinto il titolo dei pesi leggeri non lo ha mai difeso, per la preparazione di Mayweather vs. McGregor ma non solo, tanto che agli stessi colleghi sembra che lo tenga in ostaggio e chiedono che venga privato della cintura.
Due atleti di indubbio spessore, ma veniamo appunto al match tanto pubblicizzato e che vedeva tra il pubblico un pezzo di storia della disciplina, Mike Tyson. Secondo molti esperti (come Alessio Sakara, con un passato nel pugilato e ora atleta MMA, che ho avuto la fortuna di intervistare qualche tempo fa), se Mayweather avesse voluto chiudere in due minuti l’avrebbe fatto, come a ruoli invertiti avrebbe potuto fare McGregor nell’ottagono contro il pugile di colore. Sono d’accordissimo, anche alla luce della partecipazione di Floyd Mayweather in WWE nel 2008, quando ebbe un incontro a Wrestlemania 24 contro Big Show. Durante il loro feud, infatti, una volta capitò che il pugile doveva dare un pugno “protetto” a Big Show, che ovviamente sapeva di doverlo ricevere e quindi fece tutto, tra allenamenti ed esperienza, per evitare danni. Risultato? Naso rotto per Big Show. Dopo ciò, fu Mayweather a dover dosare ancor più la forza a Wrestlemania, contro un gigante che agli esordi aveva battuto Hulk Hogan e che ha una carriera ed esperienza lunghissima alle spalle.
Il vero motivo per cui si è tenuto Mayweather vs. McGregor, però, credo sia un altro, racchiuso nel soprannome del pugile recordman: Money. Basti pensare che nel 2014, suo anno migliore, ha guadagnato circa 300 milioni di dollari, che secondo voci diffuse è la stessa borsa del singolo incontro con il fighter irlandese, che il vincitore ha portato a casa. Ovviamente, McGregor nemmeno ha combattuto per la gloria, vincendo dal suo punto di vista, e a mio avviso hanno vinto anche gli amanti del pugilato. Magari non sabato notte, quando si è tenuta quella che i più suscettibili hanno definito farsa, ma la vittoria si vedrà col passare del tempo, quando alcuni dei curiosi della battaglia del secolo resteranno per vedere le prodezze di altri pugili.

venerdì 21 luglio 2017

Vedi Napoli e poi “muori”


Pochi giorni fa il periodico inglese “The Sun” ha stilato una classifica delle dieci città più pericolose al mondo. Tra queste, oltre alcune prevedibili come Raqqa, dove c’è il quartier generale dell’Isis, figura Napoli.
Inutile dire che i rimandi a opere come “Gomorra” fanno solo capire quanto poco profonda sia la scelta di inserire il capoluogo campano nella top ten. Ma casualmente mi sono trovato a passeggiare per Napoli proprio il giorno dopo il criticato articolo, e l’unica rapina, seppur non a mano armata, che mi hanno fatto è stato il costo di un caffè e una sfogliatella. Specifico che avevo scelto di sedermi al tavolino del bar Leopoldo di via Toledo e consumare in tutta calma guardando il panorama e la gente passare, quindi mi ero predisposto bellamente alla rapina.


A parte gli scherzi (specifico che lo era: se vuoi sederti in centro paghi non solo la consumazione ma anche il posto) ho notato come sempre un buon controllo da parte delle forze dell’ordine su via Roma, piazza Plebiscito e le altre zone in cui sono passato, non tutte centrali, e turisti, italiani e stranieri, calmi e rilassati sulla riviera di Chiaia intenti a farsi selfie. Tra l’altro, mancavo per vari motivi dalla riviera di Chiaia da anni, sono rimasto letteralmente imbambolato davanti allo spettacolo offertomi dalla natura. Alla fine, oltre a fare una foto panoramica, ho ceduto anch’io al selfie, e non me ne facevo uno da anni.
Non capisco mai quali siano i reali motivi che portano quotidiani affermati a livello mondiale, credibili qualsiasi cosa dicano e quindi con una reputazione da non infangare, a fare queste figuracce. Mi viene da pensare che, o non sono mai stati a Napoli e abbiamo solo visto serie televisive sulla camorra, o che ci siano motivi più grossi (e meno chiari) dietro. Una cosa sicura è che dispiace che il frutto del lavoro di tanti partenopei, intenti ogni giorno a migliorare il posto in cui vivono, venga ignorato da studi poco o nulla approfonditi.
Intanto, io continuerò ad andare a Napoli e godermi le bellezze del posto, senza nessun pericolo.

domenica 4 giugno 2017

La Juventus e il mal di finale


La Juventus conferma ancora una volta il buon cammino in Europa, con la nona finale di Champion’s League: più di lei solo Real Madrid, Milan e Bayern Monaco, che però hanno vinto rispettivamente 12, 7 e 5 coppe, rispetto alle sole 2 dei torinesi.
La finale di Cardiff però conferma un dato preoccupante: si rafforza il record di finali perse, 7, 5 negli ultimi 20 anni mentre l’ultima vittoria è datata 21 anni fa. Sono andato a spulciare meglio i dati delle finali, giusto per avere dati da porre alla vostra attenzione. Seguite lo schemino.
1973, Ajax - Juventus, 1-0 al 90’.
1983, Amburgo - Juventus, 1-0 al 90’.
1985, Juventus - Liverpool, 1-0 al 90’.
1996, Juventus - Ajax, 1-1 al 120’, 4-2 dopo i rigori.
1997, Borussia Dortmund - Juventus, 3-1 al 90’.
1998, Real Madrid - Juventus, 1-0 al 90’.
2003, Milan - Juventus, 0-0 al 120’, 3-2 dopo i rigori.
2015, Barcellona - Juventus, 3-1 al 90’.
2017, Real Madrid - Juventus, 4-1 al 90’.
Il dato che emerge è che delle due vittorie di coppa, una è stata ottenuta dopo i calci di rigore, e quindi dopo il pareggio nei tempi regolamentari, e l’altra ai margini della strage dell’Heysel, quindi in un clima irreale. Basti pensare alla televisione austriaca, che mandò in diretta la partita, senza telecronaca e con un messaggio in sovrimpressione: “Questa che andiamo a trasmettere non è una manifestazione sportiva.” Vittoria, come detto, irreale, e frutto comunque di un rigore trasformato da Platini, non certo un roboante 4-1 come il Real quest’anno.
Tolta la finale di Bruxelles del 1985 (quella dell’Heysel), il computo nelle finali è 2 pareggi e 6 sconfitte. Una Juve che, di fatto, non ha mai vinto una finale in condizioni normali. E, come potete vedere dallo schemino, non è una visione da tifoso, ma quello che si evince dai numeri. Tecnicamente, ha fatto meglio il Borussia Dortmund, due finali di cui una vinta, appunto contro la Juve, ma 3-1 al 90’, senza overtime.
Perché ciò accade? Il mio pensiero, e qui si va nelle impressioni personali, è la bambagia in cui è avvolta la Juventus in Italia, dove “gli avversari si scansano” (parole non mie, ma di Gianluigi Buffon) e lasciano vincere la Juventus in vista di partite più alla loro portata, arbitraggi non delittuosi, non comperati dalla società di Torino, ma che possono sembrare di parte per la sudditanza psicologica. Ed è totalmente comprensibile, non ne faccio assolutamente loro una colpa: un arbitro nella loro bomboniera, lo Juventus Stadium, nel dubbio cosa mai può decidere?
Eppure questa volta ero convinto vincesse: se due anni fa era sfavorita contro la corazzata Barcellona di Lionel Messi, quest’anno era favorita poiché aveva di fronte un Real Madrid senza fame (le cui vittorie recenti sono 2014, 2016, 2017, entrando nella storia per due coppe consecutive da quando c’è questo regolamento). Ok, per i madrileni c’era ad attenderli la storia, ma appena la stagione scorsa avevano vinto, mentre la fame della Juventus si protraeva da 21 anni.
Sono convinto che, di questo passo la coppa arriverà presto, forse già l’anno prossimo, ma sarà frutto di episodi per l’evidente mal di finale dei bianconeri. Migliorare in questo può portarli a vincere davvero tanto, e sarebbe ora: i tifosi juventini, oggi, stanno sfoderando un’acredine senza precedenti, segno che cominciano a soffrire di queste sconfitte, e segno forse che, avvolti anche loro dalla bambagia in Italia, non hanno ancora imparato a perdere.

sabato 6 maggio 2017

Il Palazzo Ducale, simbolo di rinascita a Parete


Come anticipato lo scorso pezzo, torno a parlare della Pasqua paretana, ma focalizzando il discorso su ciò che ho eletto come vero simbolo del clima di rinascita che si respira nel paese casertano: il 15 aprile, giorno prima di Pasqua, è stato infatti inaugurato e aperto al pubblico il Palazzo Ducale, dopo anni di restauri, ed è prepotentemente salito in cattedra per quanto riguarda i festeggiamenti.
Ciò è avvenuto perché il sindaco, Gino Pellegrino, la sua giunta e tutti i promotori dell’arte nel paese, hanno unito più spunti di interesse sul suolo del palazzo. Una struttura del genere disponibile può difatti essere utilizzata per lanciare attività correlate alla causa di Parete, come è stato fatto.
La festa della fragola, arrivata al quinto anno, è stata spostata nell’ampio spazio aperto subito fuori il palazzo, tanto che gli organizzatori della festa della fragola hanno potuto invitare gli Uanema Orchestra per dell’ottima musica dal vivo. I vari assaggi dei piatti più disparati, dai classici dolci agli audaci primi a base di fragole, sono così diventati motivo per ascoltare musica.
All’interno, invece, è stato utilizzato al massimo uno dei simboli di Parete, appunto la fragola locale che viene distribuita in tutta la nazione, con un museo dedicato, il primo del genere in Italia, lungo tutto un piano.
Su un altro piano, invece, una mostra di dipinti, sculture e istallazioni hanno fatto il resto, in modo che i fruitori hanno potuto godere di un Palazzo Ducale restaurato e riportato agli antichi splendori mentre assisteva a una mostra di artisti locali.
Numerose anche le occasioni e le iniziative che hanno trovato il punto più alto tra le antiche stanze della struttura, come presentazioni di libri, o “Scorci del tuo paese”, concorso dedicato ai bambini delle scuole che hanno realizzato numerosi disegni su Parete, e “Espressioni di poesia 2017”, che purtroppo come detto lo scorso post è stato pubblicizzato male, ma che ha portato comunque circa quaranta poeti a contendersi i tre ambiti premi.
La premiazione del concorso di poesia condotta da Raffaella Sangiuliano (con cui ho avuto modo di collaborare quando ho presentato una mia pubblicazione a Parete), avvenuta il 22 aprile, un giorno prima di “Scorci del tuo paese”, ha visto molti poeti leggere le proprie opere davanti a un pubblico numerosissimo tanto da poter essere a malapena contenuto nella capiente stanza. A trionfare è stato Fabio Dell’Aversana, ma la vittoria è stata di tutti, dai “concorrenti” a quanti hanno mostrato interesse per l’arte con la sola presenza. Continuando su questa strada, si potrebbe pensare a un appuntamento annuale sempre più conosciuto. I presupposti ci sono.

domenica 30 aprile 2017

Parete, città della fragola, a Pasqua


A Parete, in provincia di Caserta, la settimana che va da Pasqua alla domenica successiva è molto sentita dalla popolazione, per la festa che si tiene ogni anno, in onore non solo della Pasqua ma anche di Maria SS. Della Rotonda, con il quadro che va in processione per le vie del paese e quant’altro. Ci sono alcuni punti fermi, attesi da tutti, e cercherò di parlarvene. Lo faccio solo ora perché per la festa del 2017 c’è stata anche l’inaugurazione del Palazzo Ducale e il primo museo della fragola in Italia che si trova in alcune sale interne, celebrato anche da un nuovo cartello che annuncia l’ingresso in paese.
In ordine cronologico, uno dei primi punti caratteristici è il volo dell’angelo che esordisce appunto il lunedì dell’angelo, il giorno dopo Pasqua, con due bambine attaccate, in tutta sicurezza, beninteso, a un sistema di carrucole a diverse decine di metri d’altezza. Passano “in volo” sulla piazza antistante la chiesa di San Pietro, da una torretta fin quasi a ridosso della chiesa, poi scendono, recitano una preghiera davanti al quadro della Madonna e tornano indietro, sempre passando in alto grazie alle carrucole. A quel punto parte la processione, quest’anno seguita in diretta da Tele Club Italia lungo tutto il percorso.
Nell’arco della settimana si tiene anche un concerto con un artista affermato, che quest’anno doveva svolgersi con Simone Schettino, vera e propria icona in Campania, prima della parte musicale, a cura di Enzo Avitabile e i suoi bottari. Dato che mercoledì 19 Schettino era impegnato con “Made in Sud”, programma nel quale si esibisce, lo spettacolo è stato a cura di Avitabile, fresco vincitore di due David di Donatello e di cui il regista premio Oscar Jonathan Demme, recentemente scomparso, aveva detto che è il figlio spirituale di John Lennon, tanto da girare un documentario sull’artista.
Venerdì 21, come detto, è toccato a Simone Schettino, in grado di portare ulteriore risalto alla festa, poi sabato 22 c’è stata la premiazione del concorso “Espressioni di poesia”, invero poco pubblicizzato (io l’ho saputo quando era ormai scaduto, non nascondo che avrei partecipato volentieri e avrei girato le informazioni a diversi amici, a differenza mia, di indubbio valore artistico).
La premiazione si è tenuta in una sala gremita di persone nello storico Palazzo Ducale, inaugurato dopo lunghi anni di lavori e aperto al pubblico proprio in quei giorni. Ma su questo argomento torno in un nuovo post, dato che c’è molto da dire.
Sabato sera, il gran finale (non esattamente, dato che il giorno dopo torna il volo dell’angelo, ma lo è nella percezione di molti) con i fuochi d’artificio creati da artisti provenienti anche da altre regioni d’Italia.
Tutta la settimana si svolgono attività collaterali ma altrettanto riconosciute, come la vendita, l’asta pubblica in piazza con beni donati dai paretani, in una cornice di luminarie ogni anno sempre più sfarzosa (è appunto di quest’anno la nuova “galleria” di luci) oltre all’ormai caratteristica festa della fragola, giunta al quinto anno e che vede tra gli organizzatori moltissimi giovani, in continua crescita. Per la quinta edizione, c’è stata anche musica dal vivo con la Uanema Orchestra, esperimento che sicuramente verrà ripetuto i prossimi anni.

giovedì 30 marzo 2017

The OA, un racconto intorno al fuoco


Ho terminato da poco la visione del telefilm “The OA”, creato da Brit Marling e Zal Batmanglij per Netflix. Anche se raramente, ogni tanto mi lancio nella visione di serie televisive, quindi ne scrivo per un motivo non strettamente legato alla storia: mi è stato consigliato da diverse persone, tutte ne parlavano in modo entusiastico e affermavano di non riuscire a dirmi nulla sulla trama, in ogni caso avrebbero rovinato la visione del telefilm.
Ora, l’ho trovato più che onesto, con un finale aperto che fa aumentare il voto finale, ma fare un piccolo riassunto a chi vuol seguire le vicende di Prairie Johnson è possibilissimo. Esempio: una ragazza cieca ricompare dopo essere scomparsa per sette anni, e riacquistando il dono della vista. “Recluta” cinque persone per narrare loro una storia, sulla sua prigionia durante i lunghi anni di assenza, in bilico tra scienza e fantascienza.
Ecco, anche articoli online riportano quanto sia difficile parlarne senza spoiler, e con il passare delle otto puntate la cosa mi ha lasciato basito. A parte questo, come detto, più che onesta serie televisiva, che ha il grosso pregio di lasciare in dono al pubblico un finale di cui discutere. Io e una persona con cui ho visto The OA abbiamo due idee diverse per il finale, le espongo entrambe.

DA QUI, SPOILER SUL FINALE DELLA SERIE “THE OA”
Per me, le immagini di cui parla, del sequestro, la miniera, gli esperimenti e quant’altro, sono immagini oniriche “deposte” nella sue mente per portarla al vero passaggio da un mondo all’altro. È davvero in contatto con qualcosa, tanto da riacquistare la vista, o di intuire che nella scuola dove tutto il suo gruppo d’ascolto, quattro studenti e un’insegnante, sta per irrompere un uomo armato deciso a fare una strage. Ciò non cambia che le gabbie e i luoghi in cui è stata non esistono su questo o altri livelli di realtà, sono il modo in cui una mente “con problemi mentali” elabora i cinque movimenti da insegnare ai cinque del gruppo.
Per l’altra persona con me alla visione, il finale, la danza nel corso del quale la protagonista passa a un altro livello di realtà, venendo colpita dall’uomo armato e di fatto morendo, dimostra che tutto quel che ha raccontato è vero. Nonostante Alfonso, un ragazzo del gruppo, trovi dei libri che fanno pensare a una storia finta, e lo psicologo che ha in cura Prairie, la protagonista, dica che in effetti è così, i cinque movimenti hanno un effetto reale. Con la morte, lei davvero tornerà alla miniera in cui è rinchiusa con Homer e gli altri, riuscendo a salvarli grazie al viaggio in questa realtà.
A ogni modo, è stata firmata la realizzazione di una seconda stagione, quindi non ci resta che attendere per vedere chi ha ragione.

giovedì 9 febbraio 2017

Max Pezzali, un Gigante del Novecento


Nei giorni scorsi mi è capitato di leggere il fumetto di Zerocalcare scritto per Wired (di cui trovate un’immagine qui sopra), che trovate integralmente a questo link, e ho ripensato quanto in effetti abbia ragione. Max Pezzali, e prima ancora il suo storico progetto 883, ha dato e continua a dare davvero l’impressione di essere un gigante della musica, nonostante forse nel panorama italiano ci siano cantanti più dotati. Questo accade perché tocca altre corde, è cresciuto con i trentenni attuali cambiando i temi trattati in base alla sua, e nostra, crescita.
Da piccolo ho apprezzato tantissimo pezzi come “Hanno ucciso l’uomo ragno”, “Nord Sud Ovest Est”, “Sei un mito”, “Ti sento vivere”, “Tieni il tempo” e “Gli anni”, tra le altre, perché parlavano di cazzeggio, o scoperte, o ancora primi amori, con un tocco di nostalgia già presente in uno dei suoi capolavori, “Gli anni”. Ciò che è riuscito a fare dopo il 1995, però, lo ha fatto diventare un vero gigante: “Nessun rimpianto”, 1997, comincia a trattare temi diversi, come il dolore che si prova quando finisce una storia d’amore, “Finalmente tu” il traguardo dell’amore dopo mille tentativi a vuoto, “Come deve andare” (2001) e “Lo strano percorso” (2004) parlano delle cicatrici dovute alle esperienze di vita. “Sempre noi”, duetto del 2012 con J-Ax, è un monumento malinconico a ciò che è stato, ma come molte canzoni di Pezzali finisce con uno sguardo ottimista al futuro.
Ha, in pratica, seguito la crescita degli allora giovani fan, oggi ormai adulti, che hanno messo da parte l’epoca delle feste sfrenate fino all’alba e oltre, che magari si sono sposati e hanno figli, e che riescono a seguire “lo strano percorso” della vita anche attraverso le canzoni di Max Pezzali.
Non ho scelto a caso la vignetta di Zerocalcare, altro personaggio che riesce a toccare le stesse corde emozionali: forse la sua opera più amata è “Kobane Calling”, ma se avesse esordito con quella sarebbe al massimo finita, tra i cultori del fumetto, nello scaffale di fianco a “Maus” di Art Spiegelman (e nonostante ami i lavori di Zerocalcare, è doveroso specificare che sarebbe accaduto per i temi trattati, non certo per la qualità, inferiore all’opera sull’Olocausto). Invece l’ha pubblicata dopo “La profezia dell’armadillo”, “Un polpo alla gola” (la mia preferita) e “Dimentica il mio nome”, zeppi di riferimenti a Ken il Guerriero, Jeeg Robot, I cavalieri dello Zodiaco, e tutto il mondo nel quale è cresciuto, lo stesso in cui sono cresciuti gli attuali trentenni, portando “Kobane Calling” nelle case di tante persone che non avrebbero nemmeno preso in considerazione un’opera del genere.
Ero indeciso se lasciarvi con il video di “Come mai” o “Una canzone d’amore”, ma ho optato per “Sempre noi”, pezzo impreziosito dalla presenza di J-Ax, artista che ho visto in concerto con gli Articolo 31 e di cui ho mancato un secondo concerto, da solista, perché quella stessa sera veniva presentata una mia pubblicazione in altra sede. Avevo praticamente già in mano i pass backstage, ma ci saranno altre occasioni, magari un concerto con entrambi i cantanti.


mercoledì 25 gennaio 2017

“Arrival”, perché il film è qui?



Nei giorni scorsi ho visto il film “Arrival”, nelle sale cinematografiche da poco più di una settimana. Fin dal primo momento ho pensato che mi ricordava un altro film, che nominerò tra breve, ma ho supposto fosse una mia impressione, seppur condivisa dal piccolo gruppo con il quale ero al cinema.
Ieri sera, spinto dalla curiosità di sapere cos’altro avessero fatto gli attori del film, ho cercato il titolo su google, trovando un articolo interessantissimo di movieplayer in cui si parla proprio dei punti in comune tra i due film, “Arrival” e “Interstellar”.
L’articolo lo trovate qui, e vi lascio alla sua lettura (in cui ci sono spoiler che in questo mio intervento non troverete, lo specifico per chi non ha visto i due film).
Prima, però, volevo dire che ho molto apprezzato entrambi, forse “Interstellar” un pizzico di più, ma per la garanzia data dal regista, quel Christopher Nolan di cui ho visto praticamente tutto da “Memento”, per me suo capolavoro, in poi. “The prestige”, “Inception” (uno dei primi che mi ha fatto rivalutare Leonardo DiCaprio su cui pesava il macigno “Titanic”), anche la trilogia su Batman, personaggio che di norma non seguo nei film, tutto ha palesemente la sua firma.
Dopo “Arrival”, però, dovrò mettere anche Denis Villeneuve tra i registi da seguire assiduamente, oltre al già citato Nolan, M. Night Shyamalan e qualcun altro. A proposito del regista de “Il sesto senso” in cui recita la leggenda vivente Bruce Willis, domani verrà distribuito nelle sale il suo nuovo e promettentissimo lavoro, “Split”, che cercherò di non farmi sfuggire.